domenica 29 luglio 2007

Gerardo Carante se ne va, il suo un rapporto difficile con gli emigranti

Gerardo Carante se ne va. L’Ambasciatore italiano in Venezuela termina un mandato complesso in un periodo unico per il paese di Bolívar. Tra i suoi meriti c’è aver intuito il pragmatismo di Chávez e aver risposto con ancora maggiore pragmatismo. Ha sempre consigliato di investire nel paese, di continuare a fare affari, di non perdere le speranze, di aver fiducia in un Venezuela consumista per genesi petrolifera. Ma ha anche commesso un errore di valutazione: aver sottovalutato il socialismo venezuelano, averlo considerato più parole che fatti. Gli ultimi mesi di slogan, camicie rosse, partito unico, ritiro di concessione, quelli della radicalizzazione del processo bolivariano, hanno confermato che Chávez non è un populista, ha un progetto che porterà al termine: il socialismo. Il chavismo è nato come movimento, continua ad esserlo. Come un fiume in piena tende ad accelerare, rompe argini, difficile capire cosa travolge e cosa risparmia. Avanza e lo fa velocemente spinto dal “pueblo”.Il rapporto di Carante con gli italiani in Venezuela è stato contraddittorio. La sua parte l’ha fatta: ha cercato di riportare alla ragione una collettività spesso in preda a paure e sospetti ingiustificati, è stato il primo ambasciatore a pronunciarsi sulla trasparenza del referendum revocatorio il 15 agosto del 2004, quando metà del paese gridava ai brogli elettorali. Quel giorno molti connazionali lo avrebbero linciato, così come tanti malumori ha scatenato l’incontro che ha organizzato tra la collettività e Chávez (22 giugno 2005), in un momento in cui il presidente venezuelano era guardato con molto fastidio. Eppure la sua linea era chiara e pragmatica: ha intuito che la stabilità politica avrebbe continuato ad arricchire gli italiani in Venezuela e soprattutto avrebbe permesso di far concludere affari alle multinazionali delle costruzioni. Così è stato. Ghella, Impregilo e Astaldi sono i più felici della sua gestione. Metà degli appalti ferroviari hanno il loro marchio (e quello di Carante).Un ambasciatore esotico, che non disdegna pelli di tigre e catene d’oro, contraddistinto da atteggiamento a volte inutilmente provocatorio: negli incontri con gli emigranti italiani non solo non ha risparmiato elogi al presidente Chàvez, pur conoscendola contarietà della platea, ma si è vantato di esserne grande amicone. Ha poi troppo spesso sottovalutato il problema degli italiani poveri, “sono al 99% ricchi” gridava distratto dai lussi del Centro Italiano-venezolano, emblema dei desideri di grandezza degli emigranti. Ma molti italiani erano impoveriti davvero, bastava andare il giovedì alla mensa della chiesa “Madonna di Pompei”. Un altro abbaglio, un altro errore di valutazione.Ha imposto il suo stile autoritario con cui ha piegato anche l’Istituto Italiano di Cultura. Grande economista, ha però una visione della cultura ridotta, essiccata, appiattita sulla società dello spettacolo. Tanti onori a Katia Ricciarelli, ma grande imbarazzo quando offende una sua ospite. L’attrice Maya Sansa è a Caracas per il film “Buongiorno notte”. Dal pubblico tuona una voce: “Ma voi non siete grandi star, dove sono le Sofia Loren, la Gina Lollobrigida?”. E’ la voce dell’Ambasciatore, il suo corpo diplomatico abbassa lo sguardo. La Sansa annaspa. E’ incapace di riconoscere i percorsi sotterranei della cultura, quelli di nicchia e dai tempi lunghi, animato invece dai grandi progetti, dai grandi obiettivi. Ideatore di un festival italiano di cultura di non grande successo, ha sorpreso tutti bloccandone l’ultima edizione. Il festival nasce e muore con lui, questa la decisione del capo. Tornerà in Venezuela per le vacanze, con questa prevedibile dichiarazione saluta la stampa, mentre soddisfatto si fregia del titolo dell’ “Orden del Libertador”. La rivoluzione lo ringrazia.

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